
Siamo stati al Teatro della Forma, a Roma, ad assistere alla messa in scena de “La notte dell’Iguana” di Tennessee Williams, tradotto da Bruno Fonzi, con la regia di Tina Agrippino e la partecipazione straordinaria di Antonio Ferrante nei panni del poeta Jonathan Coffin. Ecco la nostra recensione.
L’opera teatrale, presentata per la prima volta a Broadway nel 1961, nella versione in tre atti, è ambientata negli anni quaranta, sulla veranda vista mare del Costa Verde, un albergo sgangherato situato in cima ad una collina boscosa, gestito dalla vedova Maxine Faulk. Shannon è un ex ministro che, dopo essere stato espulso dalla sua chiesa, ha intrapreso la carriera di guida turistica, sebbene con poca convinzione. Durante uno dei viaggi da lui organizzati, viene accusato di aver avuto rapporti sessuali con la minorenne Charlotte, piccola lolita della comitiva, composta da sole donne. Per fuggire a questa tortura psicologica capitanata dall’istitutrice Judith Fellowes, Shannon cerca conforto al Costa Verde, luogo a lui caro e familiare. Stravolgendo il programma di viaggio conduce qui l’intero gruppo, alimentando così l’ira delle donne che, aspettandosi un albergo “full optional”, si vedono invece catapultate in un ambiente rustico e spartano. Giunti a destinazione, l’ex ministro scopre che il vecchio gestore del luogo è morto poco prima, lasciando solo la vedova Maxine la quale lo accoglie con insistenti avances. Avances che lui, con la stessa insistenza, respinge. Nella vicenda si introduce l’arrivo di Hannah Jelkes, artista senza un soldo che approda al Costa Verde con il nonno, Jonathan Coffin, poeta quasi centenario. Fra quest’ultima e Shannon nascerà un intenso rapporto. In questa cornice troviamo anche due turisti tedeschi filonazisti, unici ospiti paganti del Costa Verde, espressione della derisione delle fragilità umane.
Protagonista indiscussa dell’intera opera è la solitudine. La solitudine di Shannon, vestita di follia, in fuga da se stesso e allo stesso tempo alla ricerca della propria reale natura, egregiamente trasmessa al pubblico attraverso l’impeccabile interpretazione di Sergio Mandato. Una personalità fatta di picchi, spinta agli eccessi, che arriva con un’intensità tale da turbare la platea, inevitabilmente coinvolta nel dramma esistenziale di un uomo perso, alla ricerca di se stesso. La solitudine di Maxine che, rimasta vedova con un’attività da gestire, sfoga la sua disperazione con l’autoctono Raùl (Ugo Andrea Santangelo), suo aiutante, pronto a servirla, in una relazione erotica che la lascia ogni volta più sola di prima. L’interpretazione di Rosa Maria Marcucci pone l’accento sull’aspetto disinibito e aggressivo della vedova che, a tratti, risulta volgare e invadente. La sorda disperazione che sfocia nel cinismo, unica arma per sopravvivere, è percepita dal pubblico come il retrogusto amaro di un dolore inespresso. La solitudine di Charlotte è interpretata dalla giovanissima Elettra Naso, un ruolo sicuramente non facile per un debutto. Elettra regala a Charlotte il candore, la freschezza e l’innocenza della giovane età, lasciando intuire appena la malizia dell’adolescente che, alla ricerca dell’amore, scopre l’erotismo divenendo consapevole del proprio potere seduttivo senza però comprenderne le conseguenze. La solitudine di Judith Fellowes, interpretata da Maria Stefania Pederzani, la sua ira rivolta verso Shannon, una furia provocata dalla violazione di quella che ai suoi occhi era una bambina, l’incapacità di ammettere che, aldilà di tutto, bambina non è più.
Formiamo una famiglia, una casa, mio Nonno ed io, capisce che cosa intendo per casa? Non una comune casa, voglio dire, non ciò che intende la gente quando parla di una casa, perché non considero una casa come una… be’ come un posto, una costruzione… una vera casa di mattoni… o di legno, o di pietra. Secondo me è un qualcosa che due persone hanno in comune, in cui ciascuno può… rifugiarsi… riposarsi… abitare, in senso morale, intendo…
Hannah (Anna Lucia Santoni) e il nonno Jonathan Coffin, sembrano essere immuni da questa solitudine. Rifugiandosi l’uno nell’altra e viceversa, sconfiggono quest’inevitabile sensazione sentendosi, ovunque, a casa. L’intenso rapporto che lega i due, l’amore corrisposto, la fiducia reciproca aldilà di ogni giudizio esterno, costituiscono le fondamenta dell’antidoto.
Incarnano l’uno la leggerezza e l’altra la saggezza, con una naturale ed equilibrata paura, provocando un’inevitabile moto di tenerezza. Ferrante colpisce ancora, sembra proprio viaggiare su un altro mondo mentre cerca le parole per concludere la tanto attesa poesia, la poesia della vita. Zoppo e precario, non si cura di nulla e grida, ride e declama parole in rima in totale libertà.
Nelle note di regia, Tina Agrippino chiarisce di aver voluto “sottolineare il rapporto che lega il poeta alla nipote pittrice, i due ‘giramondo’ che si mantengono con la propria arte” e ci riesce benissimo. Anche l’elemento dissacratorio che ha inteso potenziare con la coppia di tedeschi filonazisti risulta molto chiaro: Carmela Giannella e Francesco Buonocore sono le note stonate di una cornice fatta di profondità.
Fra solitudini e antidoti, l’iguana rappresenta il tentativo dell’uomo di superare costantemente i propri limiti, spezzando le catene che lo tengono legato. Un tentativo vano, come quello dell’iguana catturata dai ragazzi messicani che, legata a un palo sotto la veranda, sta cercando di scappare. Cerca di andare più in là della sua maledetta corda ma arriva al fondo e poi si deve fermare. Continuerà a far così finché l’alba impallidisce il cielo.
Forse maggior rilevanza poteva esser data proprio all’iguana, citata appena, in una scena priva di enfasi, quasi marginale. Forse anche la musica poteva essere migliorata, così come gli effetti, un po’ spartani e sicuramente non perfettamente rifiniti. Ma se l’intento era quello di lasciare un segno nel pubblico, sicuramente è stato raggiunto.
Ci si allontana chiedendosi se l’iguana riuscirà mai a sciogliersi in assenza di qualcuno che recida la corda, se un uomo potrà mai superare i propri limiti senza qualcuno che lo aiuti a farlo, se siamo davvero autosufficienti e, soprattutto, ci si allontana con l’insuperabile dubbio sul labile confine fra il moralmente giusto e l’immorale.
Flaminia Grieco