
È da poco uscito online “Rebirth”, secondo lavoro in studio dei Suck my Blues, che segna il ritorno della band dalle fatiche e dal grande successo del Live tour 2018 e con cui la band di Salvatore Cafiero inaugura una linea musicale molto personale. Predomina l’anima blues, con tutti i suoi richiami al rock internazionale, la quale incontra in una veste originalissima la musica elettronica – retaggio, in buona parte, della vicinanza con la band Super reverb. La potenza di questo nuovo inizio musicale è il carattere identificativo del messaggio di speranza e di vitalità di cui si fa portatore lo stesso titolo, ispirato appunto ad un’idea di rinascita, intimamente legato ad una vera e propria urgenza della band e alle sue ragioni personali.
In questa intervista esclusiva ne abbiamo parlato un po’ più approfonditamente con il frontman, chitarrista e voce della band, che ci ha raccontato più nel dettaglio la profonda autenticità e l’onestà di questo nuovo originalissimo album.
Trovo molto interessante la scelta di un titolo come “Rebirth” per un album così particolare, in cui il rock di più ampio respiro incontra il blues, un genere che la scena attuale sembra lasciare un po’ in disparte rispetto alla pur recente tradizione musicale. Sembra che in qualche modo vogliate ripristinare questo legame. Il titolo dell’album può essere interpretato in questo modo? Cosa puoi dirci a proposito della scelta di questo titolo?
In realtà hai fatto un’analisi giusta: il titolo viene da qualcosa che abbiamo vissuto nella vita reale, nel senso che noi come band avevamo un altro progetto oltre i Suck my blues, da 15 anni, i Super reverb, il cui cantante è venuto mancare proprio nei mesi in cui stavamo preparando il nuovo album. Quindi ci siamo rimessi a lavoro dopo la morte di Jessy; il titolo è una sorta di riscatto contro la morte, di rinascita, della serie “non finisce”, poi rinasce qualcosa. Anche musicalmente; è qualcosa che non solo nella vita ma anche nella musica, nell’amore, in tutto no? Anche in amore si può rinascere e questo è un messaggio che volevamo comunicare.
Del resto il blues è il genere che meglio descrive le sonorità peculiari della vostra band, come si evince dal vostro primo album e come suggerisce anche il vostro nome. Il brano “Interstellar” è una scelta ben precisa in questo senso, è un pezzo completamente blues, in cui però colpisce la presenza dei synth e dei campionamenti vocali, che portano il vostro discorso musicale su un ulteriore livello, quello della musica elettronica. Da dove nasce l’interesse per questo genere?
La nostra intenzione è fare qualcosa di originale. Sicuramente su questo si possono fare delle critiche; quando si fa un meltin’pot, un esperimento, quando si crea un’interazione fra generi diversi, si va sempre incontro a qualcosa di “pericoloso”. È molto più semplice rispettare determinate regole, come nel jazz, nel blues, nel soul, nel pop e rispettarle dall’inizio alla fine. Noi abbiamo deciso di non seguire questo metodo e quindi abbiamo voluto creare qualcosa di più blues, che comunque, come hai detto, viene spesso sottovalutato – soprattutto in Italia, dove la cultura del blues non c’è – e abbiamo cercato di dargli una freschezza più moderna, di miscelarlo ai synth, all’elettronica, alle campionature delle voci e anche ai campionamenti dei suoni, cioè cercare di fare qualcosa di fruibile. Chi magari non è ascoltatore di blues viene comunque catturato dall’atmosfera più fresca e condotto verso qualcosa che ha comunque uno spessore storico, visto per esempio che il blues nasce in Africa, da radici più primordiali, ha compiuto un percorso molto complesso e poi ha influenzato tanti generi, come il rock, il jazz. Quindi abbiamo cercato di creare qualcosa sì di fruibile, ma allo stesso tempo che comunicasse qualcosa di più profondo.
So che hai alle spalle anni di carriera e di successo; soprattutto come chitarrista hai collaborato con personaggi importantissimi del mondo della musica. Volevo chiederti come si inserisce il progetto dei Suck my blues nella tua biografia, se lo vivi come una naturale prosecuzione delle tue esperienze o piuttosto come una svolta in un altro senso.
Suck my blues nasce nel 2013, dopo un viaggio negli Stati Uniti, quando, dopo tanti anni di musica pop, mi ero veramente stancato di suonare per gli altri. Quindi vedendo la musica che c’era a New York, tanto che poi ho suonato lì proprio per “liberarmi”, per staccarmi un po’ da quell’ambiente lavorativo, è arrivata la spinta a dire “ma perché non faccio qualcosa, visto che a me piace questo genere?“. E da allora cerco di fare qualcosa che va oltre. Perché fare solo blues, anche senza contaminazioni elettroniche, è qualcosa di liberatorio, ti fa sentire indipendente; del resto è qualcosa che nessuno fa, soprattutto in Italia. Quindi il titolo “suck my blues” nasce proprio da qualcosa come “adesso basta”, “prendetevi il mio blues”. È come se fosse uno slogan, della serie “mi avete rotto, adesso prendetevi il mio blues”. D’altronde il blues non è inteso solo come genere musicale. In America si dice “blues”, “bluesy” per indicare qualcosa di malinconico, qualcosa di triste, oppure quando si ha qualcosa da dire, una lamentela, qualcosa di controcorrente. Il blues nasce da questo, dalla schiavitù, dalle persone che cantavano per sentirsi liberi dai padroni, e che comunicavano attraverso messaggi in codice proprio per riuscire a liberarsi dalla schiavitù.
Quindi, non so se è una lettura corretta, ma da queste parole sembra quasi che queste collaborazioni ti abbiano in qualche modo costretto…
A evadere, ecco, sì. Sicuro! Sicuramente l’ambiente lavorativo, cioè suonare per gli altri, è bello; tutte sono state grandi esperienze. Però non bisogna mai dimenticare di riuscire ad essere sé stessi nella musica. Si può avere tanto successo, si può essere primi in classifica, o fare tanti soldi, ma si può essere fondamentalmente infelici, quando non si è sé stessi, perché nella musica la regola principale è riuscire ad esserlo. Spesso questo principio non viene rispettato, perché pur di continuare ad avere successo ci si finge qualcosa che in realtà non si è. Il blues insegna ad essere sé stessi, quindi insegna a dire le cose come stanno, a ribellarsi, e nasce proprio da quel principio primordiale che ha fatto soffrire le persone a causa della schiavitù. Anche nel 2018 siamo schiavi di tante cose; siamo schiavi della pubblicità, siamo schiavi della musica che ci impongono. Quindi ognuno di noi dovrebbe essere un po’ più bluesman, dire le cose come stanno e liberarsi, fregarsene, cercare di uscire dagli schemi, visto che poi la vita è una sola. Nella musica io ho cercato, soprattutto con Suck my blues, di esprimere questa libertà. Quindi mescolare il blues con l’elettronica, senza compromessi. Magari nel prossimo disco lo miscelerò alla musica latino americana. Voglio sempre fare qualcosa di originale, di libero.
Infatti è questo che colpisce nel vostro genere. E mi chiedevo infatti se di tutte queste collaborazioni che hai avuto ce n’è una che magari ti ha influenzato in questo senso. Collaborazioni in generale, intendo, perché ho visto che il tuo bagaglio di esperienze è molto ampio.
Sicuramente tutto mi ha influenzato, anche le più piccole esperienze come quelle pop, o quelle più grandi, mi hanno insegnato qualcosa. Però come influenza musicale sinceramente quella che è rimasta più impressa dentro di me, nel mio carattere, è quella che ho recepito più da piccolo, quando ascoltavo il blues con i dischi di mio padre. Così mi sono informato e ho studiato il blues. E’ senz’altro questa l’influenza primaria che ha dato un imprinting al mio carattere musicale. Tutto il resto è un adattamento di quello che sono a qualcosa di diverso, anche se cerco di essere sempre me stesso, ci provo, anche di fronte alle difficoltà.
Mi sembra che questo elemento ci sia a tutti gli effetti, da un album all’altro siete cresciuti ma l’impronta è comunque rimasta. C’è un’evoluzione ma c’è anche una continuità e perciò volevo chiederti se senti che il vostro progetto potrebbe andare in altre direzioni. Dove pensi che si stia dirigendo?
Il prossimo step sarà qualcosa che caratterizzerà ancora di più questo primo passaggio. Ci sarà l’elettronica, anche perché è un’influenza che viene dai vari componenti del gruppo. Michele D’Elia si occupa dell’elettronica ed è in continua evoluzione, quindi sicuramente dovrà esprimersi in quel modo lì. E questo vale anche per gli altri, per Filippo Longo alla batteria, per Tonio Longo al basso: ognuno esprimerà il proprio carattere migliorandolo. Però io diciamo che, visto che sono quello che scrive i brani, che costruisce un po’ le basi, provo sempre a cercare strade diverse e così facendo cerco di mettere anche loro nelle condizioni di esprimersi in direzioni nuove.
Chiaro. Sempre per il discorso che facevi poco fa sull’essere sé stessi ma al contempo “fruibili”, sul cercare di metterci sempre quanto più materiale possibile.
Sì, diciamo che, più che fruibili, cerchiamo sempre di proporre qualcosa di nuovo. Secondo me la strada giusta, che poi piaccia o meno, dei Suck my blues, è la commistione dei generi. Ognuno può dire “a me non piace”, però fondamentalmente è stato qualcosa di coraggioso, provare a miscelare cose completamente diverse.
È la vostra originalità, insomma, il vostro tratto personale.
Sì certo, per me è fondamentale provare a essere originale.
Fabiana Cecamore