
“Una giusta causa” è un biopic che vede come protagonisti la splendida Felicity Jones e l’affascinante Armie Hammer . Diretto da Mimi Leder, il film è basato sulla storia vera della donna che ha segnato una tappa importante nel riconoscimento della parità dei diritti fra uomini e donne negli Stati Uniti, nonché seconda donna a esser stata nominata Giudice alla Corte Suprema: Ruth Bader Ginsburg.
All’inizio del film siamo nel 1956 e 9 donne sono state ammesse al corso di legge all’Università di Harvard. Una di queste è Ruth (Felicity Jones). In un periodo in cui l’idea che una donna potesse diventare un avvocato di successo risultava assurda quanto quella di un uomo ad accudire, Ruth non può brillare di luce propria nonostante il suo innegabile talento. Questo perché è donna, moglie di Marty (Armie Hammer), studente al secondo anno nella stessa università, e madre di una bambina, Jane. Brillare non le è permesso. Ruth continua ad essere considerata solo una donna, la moglie di uno studente di Harvard, una donna che “occupa un posto che avrebbe dovuto occupare un uomo“. La complicità con Marty, la collaborazione, la reciproca stima, l’equilibrio familiare e la divisione dei compiti casalinghi, atipica considerando il contesto storico, le danno però modo di lottare per il suo sogno.
La vita la mette a dura prova con la tragica scoperta di un tumore che ha colpito il marito, ma neanche la drammatica prognosi – il medico parlerà infatti di una percentuale di sopravvivenza del 5% – determina la sua resa. Allo sguardo terrorizzato di Marty, Ruth risponde: “Non ci arrenderemo mai. Tu continuerai a studiare, io continuerò a studiare per entrambi. Mio figlio avrà un padre“.
Grazie alla grinta e all’aiuto della moglie, che riesce a seguire i corsi per entrambi, Marty conseguirà brillantemente la laurea e inizierà a lavorare in un rinomato studio di New York. Nonostante i subdoli tentativi di boicottaggio e le difficoltà inaspettate, Ruth terminerà brillantemente gli studi alla Columbia, dove si trasferirà per seguire il marito, ma neanche l’ennesima dimostrazione di eccellenza le garantirà una strada spianata.
Dopo aver ricevuto 12 rifiuti con altrettante ipocrite motivazioni, accantonerà il suo sogno ripiegando sull’insegnamento presso la Rugter Law School. Sarà proprio il marito, anni dopo, nel 1972, a spingerla a riprendere in mano quel sogno abbandonato, sottoponendole un caso di discriminazione, stavolta maschile, che non solo le permetterà di intraprendere la carriera desiderata ma segnerà la strada per il raggiungimento dell’effettiva parità di diritti fra i due sessi, costituendo un rilevante precedente in grado di mettere in discussione decine di leggi discriminatorie.
Una trama di per sé avvincente ma, purtroppo, non è sufficiente una grande storia per fare un grande film.
La sceneggiatura, scritta dal nipote di Ruth, Daniel Stiepleman, restituisce un punto di vista umano della protagonista che, prima ancora di essere un personaggio noto, è una donna. La vita quotidiana viene messa in risalto, anche a discapito di quello che è il tema legale chiave della storia. Primaria attenzione viene data alla famiglia: collaborazione costante, un rapporto dove la complicità e la reciproca stima sono tangibili e permettono di affrontare qualunque tipo di insidia e difficoltà, dalle più comuni, come i conflitti fra madre e figlia, alle più drammatiche, come la scoperta della terribile malattia di Marty. La particolare attenzione risiede però esclusivamente nella numerosità dei dettagli che non vengono, purtroppo, approfonditi a dovere: i momenti cruciali della vita della protagonista, forse anche troppo numerosi, rimangono in superficie, mancando di intensità, sembrano semplicemente tracciare la linea da seguire per arrivare al gran finale. Un gran finale che non si fa sentire a dovere.
Quando Ruth decide di prendere in mano il caso che diventerà un importante precedente contro la discriminazione sessuale, siamo ormai a metà film e, quello che segue, è un rapido scorrimento di scene con l’immissione di nuovi personaggi. Sebbene questi nuovi personaggi siano in realtà cruciali, non sembrano avere l’attenzione che meritano. Mel Wulf (Justin Theroux), il direttore legale dell’ACLU (American Civili Liberties Union) che affiancherà la coppia nella causa, appare indefinito, Dorothy Kenyon (Kathy Bates), famosa femminista fra i fondatori dell’ACLU, donna di grande rilievo e importanza nella lotta alla discriminazione, risulta una figura marginale che appare due volte o poco più. La stessa figlia di Ruth, Cailee Spaeny, ribelle e incline alle manifestazioni, emerge solo per il suo implicito compito di dimostrare alla madre che i tempi stanno cambiando e che esistono anche altri modi di lottare.
Infine, la scena del processo risulta troppo sbrigativa e decisamente poco convincente, dalle provocazioni poco credibili dei giudici, al loro troppo repentino cambiamento di attitudine.
Nel complesso “Una giusta causa” risulta piacevole, scorre velocemente, si fa guardare e non mancano momenti in cui si ride. Quel che manca, purtroppo, è lo spessore che ci si aspetterebbe date le vicende narrate. Per scavare nella persona, è stata persa di vista quella che è stata la rilevanza storica del personaggio.
Flaminia Grieco