Era il 2 aprile del 1968 quando “2001: Odissea nello spazio” veniva proiettato per la prima volta sul grande schermo delle sale cinematografiche di tutto il mondo. Per quanto il genere fantascientifico andasse affermandosi sempre di più, quello di Stanley Kubrick e di Arthur Clarke, autore del romanzo omonimo, è stato un salto nel vuoto dal punto di vista della produzione, che gli ha permesso di fare la storia del cinema. “Odissea nello spazio” non è stato solo la realizzazione visiva ed uditiva di uno dei possibili sviluppi dell’attività umana.
La particolarità del capolavoro di Kubrick è insita negli esiti della serpeggiante analisi del rapporto tra uomo e tecnica portata avanti all’interno della pellicola. La neotenia dell’uomo viene superata grazie ad un uso intelligente delle cose, che si fanno utensili per lui anche quando non nascono come tali. Se fin qui la definizione esistenziale dell’essere umano non si solleva minimamente dal senso comune, la straordinarietà di “Odissea nello spazio” è nella connotazione almeno neutrale del binomio uomo-scienza durante una temperie storica in cui la letteratura viaggiava in senso opposto.
Basti pensare alla distopia di 1984 di Orwell, in cui la tecnica impiegata spregiudicatamente vessa l’esistenza umana fino a renderla irriconoscibile. In un certo senso Kubrick recupera uno sguardo fiducioso sullo sviluppo della tecnica in generale e dell’intelligenza artificiale in particolare, fattori con cui ridisegna la realtà e che si rivelano da strumenti per l’uomo a strumenti contro l’uomo, sempre sul punto di ferire una specie che non è in grado di stare al passo col suo sviluppo esponenziale.
HAL 9000, il computer intelligente coinvolto nella missione verso Giove, rischia di mandare in aria la missione perché condizionato da una coppia di ordini contraddittori, sintomo dell’errore umano che sta alla base del fallimento della macchina: essere programmato per interagire in modo sincero e trasparente con gli umani ed eseguire l’ordine di celare il vero scopo della missione. Ancora oggi i più recenti esiti dell’acceso dibattito sull’intelligenza artificiale sembra valida la tesi di Kubrick circa l’intelligenza artificiale piuttosto che la distopia di “Matrix” (Andy e Larry Wachowski, 1999-2003). Oggi i computer riescono a vincere partite di scacchi, ma difficilmente imparano a fare cose per cui non sono programmati.
La razza umana viene collocata da Kubrick ad un gradino troppo basso di ogni possibile evoluzione, non all’altezza di qualsivoglia missione si sia proposta di compiere. Altro aspetto curioso in sordina nel finale di “2001: Odissea nello spazio” è il focus sulla possibilità di rigenerazione del corpo umano attualmente soggetto a deperibilità. Il miracolo compiuto dal nero monolite dall’ignota provenienza sul corpo di Bowman è un segno della presenza di una delle tesi del transumanesimo, abbondantemente presente nella letteratura fantascientifica postmoderna. Per quanto il termine suggerisca una superstizione visionaria, in realtà si tratta semplicemente nella profonda credenza che la tecnica medico-scientifica abbia la possibilità di orientarsi verso una progressiva sostituibilità del deteriorato. Oltre l’usura del tempo, l’uomo è pronto ad essere Super-Uomo di nietzschiana memoria. Kubrick stesso ce lo ha suggerito con la traccia finale della meravigliosa colonna sonora del film, tratta dal “Così parlò Zarathustra” di Richard Strauss. Tuttavia anche quest’ultima metamorfosi è mediata e resa possibile da un elemento alieno all’ingegno umano, sintomo di disincanto del regista riguardo il limite di perfettibilità raggiungibile dagli utensili prodotti da una tecnica umana.
Con “2001: Odissea nello spazio” Kubrick riuscì a trasformare in sinestesia quella che in letteratura sarebbe stata una comune riflessione sul fine e i mezzi per raggiungerlo, dell’esistenza umana, grazie a innovative tecniche di ripresa, una fotografia rivoluzionaria per l’epoca, una sceneggiatura elaborata ad arte.
Non c’è molto altro da fare se non ringraziarlo per aver dato una forma artistica alla miseria dell’esistenza umana.

Emanuela Colatosti

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